
C’è una pittura che non si limita a raccontare una scena, ma la trasforma in rito. Una pittura che non descrive, ma evoca.
Alexander Donskoi, artista visionario e colto, è uno di quei pittori che riescono a rendere la tela un palcoscenico dove si celebra il dramma eterno dell’umanità: il potere, il desiderio, la finzione, la maschera.
La sua opera, un sontuoso carnevale veneziano che sembra uscire da un sogno barocco, mette in scena un complesso intreccio di personaggi mascherati: cardinali, aristocratici, dame, cortigiani, giocatori, simboli della chiesa e della nobiltà, della seduzione e del tradimento. I colori sono vivi, saturi, pieni di luce artificiale e seduzione visiva, ma dietro
quella brillantezza si cela un’intelligenza critica, un’ironia colta e tagliente.
Le maschere di Donskoi non sono semplici ornamenti teatrali: sono archetipi. Sono l’incarnazione di ruoli, poteri, bugie e destini. Ogni volto è celato, ma anche rivelato. Dietro la bellezza dei costumi, delle parrucche, dei velluti e delle sete, c’è il vuoto del volto autentico. La verità si cela proprio nella finzione.
L’artista gioca sapientemente con la composizione, creando un equilibrio armonico e vertiginoso tra figure in primo piano, dettagli simbolici, elementi mitologici e riferimenti alla storia dell’arte europea. Si percepisce l’eco di Bosch, di Caravaggio, del Tiepolo e del barocco fiammingo, ma anche una vena surreale e contemporanea. Le carte da gioco sparse, le
barche allegoriche, le monete, le mani guantate e i sorrisi ambigui parlano un linguaggio simbolico che chiama lo spettatore a decifrare.
E proprio come in un mistero esoterico, ogni dettaglio ha un significato nascosto: la rosa tra le mani, il bicchiere che cade, lo sguardo rivolto verso un altrove invisibile. Nulla è gratuito, tutto è necessario. L’opera è una mappa iniziatica che sfida chi guarda a interrogarsi sul proprio ruolo nella commedia del mondo.
Alexander Donskoi, con la sua pittura teatrale e raffinatissima, ci ricorda che l’arte può ancora essere uno specchio rituale. E che dietro ogni maschera c’è una verità più profonda: quella che si può vedere solo con gli occhi della mente.
La sua opera non è un semplice omaggio al Settecento veneziano: è un affondo nella psiche del presente, una riflessione lucida e barocca sull’illusione collettiva in cui tutti recitiamo. Un’arte che incanta, e allo stesso tempo smaschera.
Nell’opera *VENECIAN* si scoprono simboli e caratteri esoterici evidenti. Le maschere si muovono tra tranelli e inganni, con volti che sorridono ma che celano il veleno del potere. I colori brillano, ma con il tocco dell’antico: oro consunto, velluti crepuscolari, sete troppo lucide per non essere pericolose. Il sacro e il profano viaggiano di pari passo, in un mondo dove la corruzione si nasconde dietro ogni gesto, ogni ornamento, ogni sguardo.
È un teatro fatto di retroscena, dove Alexander ha saputo lavorare con maestria. Bacco, tabacco e Venere non sono solo tentazioni: diventano simboli di un’umanità compromessa, tra piaceri e deviazioni. Il ladrocinio e le vocazioni, i desideri e le ipocrisie: tutto trova posto su questa scena pittorica affollata e tagliente, come una commedia oscura che conosce il sapore della verità.
Nella pittura di Donskoi, la Venezia rappresentata non è soltanto una città: è un’idea, un mito, un contenitore di ontraddizioni. È la Venezia della magnificenza e della decadenza, della maschera e del peccato, della liturgia e della dissolutezza. Ogni personaggio pare emergere da un tempo sospeso, eppure ci guarda con la consapevolezza amara
della contemporaneità.
In *VENECIAN*, ogni gesto è amplificato: la teatralità è esasperata ma mai grottesca, l’eccesso è misura. La scenografia è studiata nei minimi dettagli, con una ricchezza di simboli che richiedono una lettura lenta, quasi meditabonda. Nulla è lasciato al caso: dalle piume dei copricapi agli sguardi taglienti, dalle mani intrecciate con ipocrisia alle carte
da gioco abbandonate sul selciato come tracce di un destino già scritto.
L’opera rivela un mondo moralmente corrotto, dove anche i simboli del potere religioso e civile si piegano a logiche di interesse e seduzione. Il Vescovo che reca con sé un rosario e una veste sacra, appare sedotto dall’oro e dall’intrigo.
Un cavaliere sorride stringendo una rosa, ma l’arma nascosta e il gioco delle carte denunciano doppi fini.
Donskoi non giudica, ma espone. Offre allo spettatore un atlante morale travestito da opera pittorica, una commedia umana che travalica i secoli. In questo carnevale eterno, non esistono eroi né santi: solo esseri umani che indossano i costumi delle proprie debolezze. Il talento dell’artista sta proprio nel far emergere l’umanità dietro il costume, il dramma
dietro l’estetica.
E così, il suo dipinto diventa più di una scena barocca: è una meditazione pittorica sulla **natura del mondo**, una parabola visiva sul compromesso universale tra bellezza e inganno. Un’opera che ci invita a guardare — e a guardarci — con occhi più profondi.
