OPHELIA di John Everett Millais

OPHELIA di John Everett Millais

Narrazione a cura di Carmelo Fabio D’Antoni – Narratore d’Arte per Ars Magistris
Rubrica: Ritratti di Luce
Colui che ritrae l’anima dell’artista

C’è una bellezza sottile che non si manifesta a voce alta.
Una bellezza che sussurra piano il proprio addio nel respiro calmo e placido di un fiume che scorre lento.
C’è un volto che non implora salvezza, ma si dona con la tenerezza struggente e inaccettabile di chi ha già scelto consapevolmente di lasciarsi andare.

“Ophelia” di John Everett Millais non è semplicemente un dipinto qualsiasi.
È una preghiera funebre mormorata dalla stessa natura che la circonda.
Un’icona sacrificale e vibrante che galleggia sull’acqua immobile e silenziosa della coscienza collettiva.
Millais non ritrae la morte in sé. No.
Rappresenta l’istante sospeso prima della fine, quel momento in cui tutto è ancora in bilico, e l’anima – svuotata dal dolore profondo – si consegna al destino come un corpo luminoso che rifiuta ogni dramma e disperazione.

Ofelia non è soltanto la donna ferita d’amore raccontata da Shakespeare.
È ogni creatura fragile e delicata che il mondo non ha saputo accogliere né proteggere.
È l’innocenza che lentamente si dissolve nell’indifferenza spietata degli eventi.
È la poesia pura che muore travolta dall’eccesso di sentimento e dal peso insostenibile dell’emozione.

Millais, con una precisione quasi mistica, intreccia una tela in cui la natura non è semplice sfondo, ma vera e propria compagna del rito sacro.
Le piante, i fiori, le erbe selvatiche, l’acqua limpida: ogni elemento vive in un’armonia silenziosa e profonda, testimone complice di questo abbandono totale.
Nulla è lasciato al caso. Tutto è carico di una solenne consapevolezza.

E poi c’è il volto.
Quel volto abbandonato alla quiete, chiaro e dolcissimo, con gli occhi socchiusi e le labbra lievemente aperte, non conosce più la paura né il turbamento.
Ofelia ha varcato il confine invisibile: non è più una semplice figura umana, ma diventa simbolo sacro e universale.
Le sue mani, aperte come in una deposizione pittorica, non esprimono rassegnazione: sono un dono offerto.
Lei si consegna, fragile e pura come un’ostia, al fiume, al tempo, all’eterno.

C’è qualcosa di profondamente sacro in questa opera.
Non nel senso strettamente religioso, ma nel significato profondo di ciò che è inviolabile e intoccabile.
“Ophelia” è un santuario dell’anima.
Un altare costruito con i materiali preziosi della bellezza e del dolore insieme.

Io guardo questa figura e sento dentro di me l’urgente bisogno di raccontarla.
Non per spiegarla razionalmente. Ma per proteggerla con rispetto e delicatezza.
Perché nel suo gesto silenzioso si nasconde tutta la voce sommessa del mondo che tace e si nasconde.

“Ophelia” è l’opera che canta ciò che nessuna parola potrà mai esprimere completamente.
Un grido sommerso nelle acque tranquille.
Un amore mai raccolto né accolto.
Una luce che si spegne lentamente… e proprio spegnendosi, brilla per sempre nell’eternità.