Luglio 27, 2024

LA MADONNA DELLE CILIEGIE – Tra Vangeli apocrifi, Corano e leggende da raccontare – a cura del Prof. Alberto D’Atanasio

Le opere a soggetto religioso, fin dall’origine del Cristianesimo avevano uno scopo catechetico, di vera e propria erudizione attraverso le immagini.

C’era la necessità di dover insegnare tramite la rappresentazione i fatti che venivano raccontati da chi proveniva dalle regioni oltre il Mediterraneo; era l’incanto immaginifico della tradizione orale.

Ma, è ovvio, non è un fatto prettamente cristiano; davanti alle immagini graffite nella rupe, dipinte nella caverna, nel tempio, nel palazzo e nella chiesa la tribù, il clan e le comunità si relazionavano con i simboli che costituivano la memoria collettiva.

Nei millenni, i simboli, sono divenuti archetipi che hanno formato l’Identità e l’Appartenenza dell’individuo e del gruppo. Intorno alle immagini che riproducevano un passo del Vangelo la gente si riuniva, pregava e si stupiva di un evento lontano nel tempo ma presente lì, nella magia del racconto pittorico. 

Accadevano eventi carichi di devozione e misticismo, nasceva la devozione e fiorivano i miracoli.

In virtù di quei racconti fatti per immagini, nasceva la comunità che cresceva fortificata da quegli ideali che avrebbero poi costituito i modelli per le future generazioni.

Nel dipinto in cui viene raffigurato la “Madonna delle ciliegie”, i pittori – non sono molti, si trovano a dipingere questa “novella” dai primi anni del medioevo fino in ambito tardo-barocco – prendono ispirazione da un passo del Vangelo apocrifo dello Pseudo-Matteo 1. XX, XXI, ma in effetti la leggenda è narrata anche nella sesta sura del Corano. Altre versioni sono poi state redatte nel nord Europa e sono particolari dei vari linguaggi interpretativi, quelle cantate e redatte in ambito ortodosso.

Dobbiamo immaginare sacerdoti, monaci, predicatori che, indicando queste opere, spiegavano come Dio si era manifestato perché tutti potessero godere della Grazia, tutti, senza distinzione.

Non era facile in epoche non dissimili dalla nostra distinguere un potere prepotente da quello che difendeva i poveri e promuoveva la civiltà.

Le immagini a soggetto sacro avevano anche lo scopo di sperare oltre le nefandezze e la promesse vane degli uomini.

Dio si manifestava nelle cose semplici, nella quotidianità; ed ecco il fatto in una delle versioni meno conosciute divenuto presente, reale perché dipinto. La leggenda è tratta dai  Coventry Mysteries Canti medievali della Gran Bretagna ed è stata collezionata nelle “Child Ballads al numero cinquantaquattro, “Joseph and Mary”: Maria era incinta, ma non aveva trovato modo e coraggio di dirlo al suo promesso sposo Giuseppe. Questi, dice il testo, era già avanti con le età e amava Maria che considerava come “l’ultimo mio fiore”.

Un Giorno, ed era di Maggio, Maria, come tutte le donne incinte, aveva le “voglie”; di ciliegie aveva desiderio. Un albero bello e rigoglioso mostrava i suoi purpurei frutti, alcuni rami sporgevano dall’orto sulla strada bianca e polverosa.

La giovane Donna scese in strada e protese le mani verso l’albero, ma nonostante si fosse messa in punta di piedi con le braccia e le dita ben stese i frutti, le foglie, come pure le sommità esili dei rami restavano lontani. Rimase lì  ansimante per la vana fatica quando vide da lontano avvicinarsi un uomo. Era caldo, l’afa rendeva tremolanti le forme, ma Lei riconobbe quelle di Giuseppe che con gli strumenti da carpentiere sulle spalle tornava verso casa. Si fermò vicino a Maria. Matteo scrive che il volto di Maria sorrideva tra le ciglia e  riscaldava il cuore, stanco per gli anni e la fatica, di Giuseppe.

“Aiutami a prendere le ciliegie”, gli disse Maria, “perché presto un figlio avrò”. Lui sentì dentro sé crescere la rabbia e le rispose: “Chiedi al padre di tuo figlio di raccoglierle per te”. E se ne andò proseguendo per quella strada bianca, calda e polverosa.

Allora, in qualche versione, si legge che il Bimbo nel suo grembo comandò all’albero di chinare i rami fino a che le mani di Maria potessero prendere e sentire tra le dita i rossi e rotondi frutti del ciliegio. In altre versioni, pare che invece Maria semplicemente guardò l’albero ed esso chinò un ramo.

Con una mano, Lei, teneva la veste sul ventre, con l’altra colse i frutti. Mentre accadeva questo, Giuseppe alla rabbia contrappose l’amarezza del distacco e la dolcezza della nostalgia, si voltò e vide che l’albero aveva piegato il ramo tanto che la Donna non dovette fare alcuno sforzo per prendere i frutti.

Tornò allora di corsa sui suoi passi e abbracciò Maria, riconoscendo in quell’evento prodigioso ciò che in sogno l’angelo gli aveva preannunciato. Da lì cominciò la Storia che condusse la coppia e Gesù, prima a Betlemme, poi in Egitto e quindi all’avvio del Nuovo Testamento. Nell’opera di Federico Barocci del 1572 c.a. L’incanto avviene nella sosta durante il viaggio, dopo la visita dei Re maghi e prima di arrivare in terra d’Egitto. San Giuseppe non è caduco, è un uomo adulto che sorride al piccolo Gesù, gli passa un ramo di ciliegie, e questi alla madre. 

Maria sorride  con una espressione assorta e già malinconica. Lei sa già, nel suo animo il Mistero è già stato svelato, lo conserva e lo preserva perché, nonostante la carne e il suo essere madre, tutto si avveri. Barocci la pone con la stessa posa che Michelangelo usò nel Tondo Doni settant’anni prima. Il piede destro è indietro, nella Madonna delle ciliegie non si vede.

Il sinistro è scalzo, ed è evidente perché è con la sinistra, con la passione, che si può comprendere il mistero di un Dio che si fa Bambino per l’uomo.

Nel Tondo Doni, la Madonna porge Gesù a San Giuseppe perché con San Giovannino inizi il battesimo degli ignudi che oltre il fosso–fiume, attendono. Nell’opera di Federico Barocci il battesimo è ancora lontano, Maria con una scodella prende l’acqua da una sorgente perché la famiglia si possa dissetare; l’asino guarda la scena, è rivolto verso un sole che per alcuni sorge, per altri tramonta. In ogni caso, qualcosa sta cambiando: inizia un altro giorno, un altro tempo. L’asino, in un passo dellibro dei Numeri, è capace di “vedere” i segni di Dio e di opporsi all’uomo ottuso che non comprende la parola di Dio (cfr. Nm 22,23-35). L’asino è dunque una figura sapienziale, perché riconosce la volontà di Dio prima ancora dell’uomo che si ritiene saggio, veggente. L’asino osserva e capisce i segni. Tu che leggi, vuoi delle ciliegie? 

     Alberto D’Atanasio

  Docente M.I.U.R. di Storia dell’Arte, 

                                                                           Estetica dei Linguaggi Visivi. Teoria della percezione 

                                                                                      e Psicologia della forma