Marzo 29, 2024

Tra L’Eterno e L’Etereo a cura di Alberto D’Atanasio

TRA L’ETERNO E L’ETEREO 

 Non è stato semplice, né poteva esserlo, scrivere su Vincent Van Gogh. Di lui si è detto tanto, a volte anche troppo, si sono svuotati calamai di inchiostro per stilare concetti, talvolta, del tutto opposti all’oggettività della storia, dei documenti e delle memorie scritte da chi l’ha conosciuto e da chi è vissuto con lui. Vincent Van Gogh nasce il 30 marzo del 1853 a Zundert, un piccolo comune  olandese del Brabante del nord.

L’edificio che oggi viene indicato come casa natale è una ricostruzione, perché quella originale fu demolita nel 1903.

La dinastia Van Gogh apparteneva alla borghesia olandese. Già dal XVI secolo dei documenti annotano che i vari membri si distinguono, in maniera particolare, come pastori protestanti, professionisti, intellettuali e, uno di essi, come scultore. Ma se dovessimo individuare la professione più scelta, essa è certamente quella legata alla cura delle anime. Nella fotografia in questa pagina si vede la vera casa in cui nacque Vincent Willem Van Gogh. Dietro alla carrozza,  è quella che issa una bandiera durante un corteo.  La stanza in cui viene alla luce il piccolo Van Gogh  è  proprio quella dietro alla bandiera.

Vincent è il primogenito del pastore protestante Theodorus, detto Doro (1822 – 1885), che aveva trentuno anni quando diventa padre e di sua moglie Anna Cornelia Carbentus (1819 – 1907), che ne aveva trentaquattro. Come i suoi antenati, proveniva da una buona famiglia borghese d’Olanda. La coppia, il 30 Marzo1852, aveva avuto un figlio maschio al quale era stato imposto lo stesso nome del futuro pittore; ma il bimbo era nato morto.  

Nel giardino della sua chiesa, il padre aveva posto la tomba del piccolo primogenito  Vincent. Così Van Gogh quasi quotidianamente vedeva davanti a sé una tomba con inciso il proprio nome e il proprio giorno di nascita. Tra i critici e i numerosi psicologi è comune l’idea che questa esperienza abbia segnato significativamente la vita dell’artista amplificando la sua inclinazione per l’assurdo. 

Tuttavia Vincent, pur ritenendo i genitori troppo osservanti e  pur non condividendo l’idea rigida di religione da loro praticata, avrebbe  comunque scritto nel 1889 “Qualunque cosa io possa pensare su altri punti, nostro padre e nostra madre sono stati una coppia esemplare”.

Dopo Vincent, Doro e Anna Cornelia diedero alla luce cinque figli: Anna, Theo, Elizabeth, Wilhelmien e Cornelius. Vincent avrebbe stretto un legame fortissimo con Theo,  il terzogenito (1857 -1891), di quattro anni più piccolo di lui, che diverrà gallerista e lo proteggerà fino alla fine. I documenti rivelano anche un rapporto molto tenero con la “sorellina” Wilh, la penultima nata, mentre non ebbe quasi mai contatti  con gli altri fratelli.

Nella famiglia Van Gogh fu fondamentale la figura del nonno, dal quale il futuro pittore avrebbe preso il nome, Vincent.  Nonno Vincent (1879) era un pastore protestante, aveva studiato teologia all’Università di Leiden e fu padre di ben undici figli. Molti di questi furono importanti per  le scelte di vita del pittore. Hendrik Van Gogh, detto “Eh”,  fu un mercante d’arte a   Bruxelles. Johannes van Gogh fu un ammiraglio della marina olandese. Cornelis Marinus van Gogh, detto “Cor”, fu anch’egli un mercante d’arte. Vincent abitò nella sua casa di Amsterdam per più di un anno. 

Van Gogh ebbe un’infanzia felice, finché non cominciò a frequentare la scuola. Era piuttosto seguito dai genitori che, dai documenti biografici, risultano molto presenti ed apprensivi, ma anche piuttosto inclini a imporgli obblighi e responsabilità. Questa loro eccessiva protezione cominciò a scontrarsi  con il suo ingresso nel mondo scolastico. L’unico a comprenderlo era sempre il fratello Theo. 

La scuola fu per lui una brutta esperienza. Si trovò isolato, incompreso.  In una foto di gruppo con altri studenti e con il professore, egli è il terzo ragazzino, nella parte bassa della fotografia, dalla parte destra di chi guarda, con il cappellino sul ginocchio. 

Ci appare con le braccia incrociate, le gambe accavallate, chiuso su se stesso. Ingrandendo l’immagine e osservando attentamente la sua postura e l’espressione del viso,  si mostra  corrucciato e teso, con le braccia serrate, in posizione conserta. A differenza degli altri compagni di classe, che hanno posture più rilassate e disinvolte, Vincent sembra evitare il contatto fisico e preservare il proprio spazio ridotto.

Gli anni della scuola, dunque, non furono affatto facili.  Come si evince dai documenti, visse attriti con gli altri studenti e anche  con le istituzioni scolastiche, nei confronti delle quali mostrò un atteggiamento di asocialità e contestazione.  A Vincent piaceva leggere e pensare, senza avere guide.

Rimase nella scuola dal gennaio 1861 al settembre 1864 e,  dal primo ottobre 1864, passò al collegio di Zevenbergen, dove studiò il francese, l’inglese, il tedesco e l’arte del disegno. Dal 1866 frequentò invece la scuola presbiterale secondaria di Tilburg

Il suo professore di arte era il pittore Constant Cornelis Huijsmans

Le fonti raccontano che nel 19 marzo 1868, a causa di uno scarso rendimento, ma anche per via di problemi economici che gravavano, in quel periodo, sulla sua famiglia, ritornò a Zundert senza aver concluso gli studi.

Tuttavia Vincent ricordò quegli anni come un periodo felice e ripensava a quei momenti con grande nostalgia. Ecco come ricorda quel tempo in una lettera:

 “Durante la mia malattia ho visto accanto a me ogni stanza della casa di Zundert, ogni strada, ogni  pianta del giardino, i dintorni, i campi, i vicini, il cimitero, la chiesa col suo orto e persino il nido di gazze sulla grande acacia del cimitero”

La sua situazione scolastica  e quella economica della famiglia indussero lo zio antiquario, chiamato Vincent anche lui e detto Cent, a far lavorare il ragazzo ormai quindicenne nel mercato dell’arte che poteva rivelarsi più proficuo e redditizio. In quel periodo gli acquisti di beni artistici aumentavano, come l’offerta di opere da parte dei pittori. Così zio Cent, nel 1869, pensò di raccomandare il nipote alla casa Goupil, alla quale aveva venduto il proprio negozio all’Aja. 

Vincent prese il lavoro come una liberazione dagli obblighi scolastici e come una sorta di avventura che poteva soddisfare i propri interessi intellettuali. 

Infatti studiava libri d’arte, visitava mostre e musei. Era lontano dalla famiglia, ma frequentemente incontrava l’amatissimo fratello Theo e cominciò con lui una copiosa corrispondenza. Nel 1873 venne trasferito alla filiale delle gallerie Goupil di Bruxelles e, nel maggio dello stesso anno, a Londra. Questi trasferimenti in filiali ben più importanti di quella di Goupil fanno dedurre che il lavoro e l’impegno di Vincent fossero molto apprezzati. 

A Londra vivrà una vicenda d’amore che segnerà in maniera indelebile la sua vita e il suo futuro;  prese alloggio in un appartamento con altri inquilini, ma insoddisfatto di quella situazione, decise di trovare un posto più tranquillo, più consono al suo animo. Trovò una stanza presso l’appartamento abitato da un’immigrata francese, la signora Loyer. Questa casa è descritta come ariosa, ordinata ed elegante. Nella stessa casa viveva Eugenie, la figlia della signora Loyer, che, all’epoca aveva vent’anni.

 Vincent fu incantato da Eugenie; lei era bionda, aveva gli occhi chiari, i capelli pettinati, i boccoli liberi a cadere sul collo e sulle spalle, la figura sinuosa e femminile, una grande eleganza nel portamento.  Era talmente preso da quell’atmosfera e da Eugenie che decise di condividere le feste natalizie con la ragazza e la madre e di non tornare dai genitori. Non abbiamo documenti che attestino cosa fosse accaduto in quei giorni e se tra i due giovani fosse successo qualcosa. Vincent non ne scrisse e non ne parlò con nessuno, nemmeno con Theo. Ciò che si sa è che nei mesi successivi lui si dichiarò o chiese ad Eugenie di ufficializzare il loro legame segreto. Ma lei gli rispose che era già fidanzata con un precedente inquilino. Gli storici ritengono che Vincent fosse divenuto insistente e importuno perché, presumibilmente un approccio amoroso tra i due c’era stato e lui si sentiva di sperare. 

Evidentemente l’insistenza di Vincent fu davvero imbarazzante perché la madre di lei, con molta probabilità per  tutelare la serenità della figlia, lo cacciò dalla stanza. Per Vincent fu una sofferenza insuperabile. Era innamorato di Eugenie e cadde in una tristezza cupa.

Chiese e ottenne di essere trasferito all’Aia. Ma nel lavoro era discontinuo, così si trasferì a Londra e qui venne ospitato dalla sorella Anna. 

Fu in questo periodo che si avvicinò e studiò di più la teologia. Nel maggio del 1875 venne trasferito alla sede della Goupil di Parigi, ma il suo impegno fu praticamente nullo, e nel Natale del 1875, senza dare preavviso ai datori di lavoro, partì per passare il Natale a casa dai genitori. Aveva bisogno d’amore Vincent, un bisogno d’amore che non lo abbandonerà mai. Venne licenziato. I genitori preoccupati delle sue condizioni psicofisiche, lo convinsero a rimanere a casa e a non ripartire per  l’Inghilterra.

Eugenie, la ragazzina dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, conosciuta a Londra, l’aveva ferito in maniera profonda. Vincent non riusciva a capire il senso di quel rifiuto, considerava il fatto che avevano vissuto sotto lo stesso tetto, considerava come un profondo legame quell’intimità che forse c’era stata perché dopo quell’allontanamento la sua vita cambiò totalmente. 

L’aiuto arrivò, come anni prima, dal generoso zio Cent, l’ex gallerista, che propose di far lavorare il nipote come commesso in una libreria di Dordrecht. Vincent cominciò così a vivere da solo e nel tempo libero si dedicava, più che in passato, agli studi di teologia. 

Studiava i Vangeli nelle varie confessioni e traduceva la Bibbia. Voleva intraprendere anche l’altra professione di famiglia che era la predicazione, voleva divenire pastore protestante, com’era suo padre e com’era stato suo nonno. 

Era affascinato dalla religione e della figura stessa di Gesù; nel 1878  tentò  di entrare nella facoltà di teologia di Amsterdam ma non fu ammesso. Di conseguenza, frequentò un corso trimestrale di evangelizzazione in una scuola di Laeken, vicino Bruxelles, ma la commissione dei docenti non lo ritenne idoneo a svolgere l’attività  di predicatore. In questo ambito le fonti si fanno più interessanti, ma ingarbugliate, è evidente che la conoscenza di questa sua ricerca religiosa viene complicata dalle varie traduzioni. Infatti, egli scrisse ottocentoventuno lettere, seicentosessantotto  indirizzate al fratello Theo, di cui quattrocentosessantasei  sono scritte in olandese, la loro lingua madre, duecento in francese due in inglese. Le lettere subirono traduzioni poco accurate e interpretazioni arbitrarie che in qualche caso non restituiscono l’esatta atmosfera che dovevano vivere Vincent, Theo e gli altri corrispondenti.  Inoltre, molti ricercatori hanno ritenuto la fase “pastorale e missionaria” come secondaria a quella di mercante d’arte e a quella di pittore, per cui degli aspetti e delle considerazioni su Van Gogh religioso e mistico, si sono persi. È prevalsa l’aura del bohemien, dell’alienato, del bevitore e dello psicotico escluso dalla società. Invece, è evidente che la riflessione sui vangeli e la traduzione dei testi delle varie confessioni, iniziata nel 1875, lo resero inviso alle autorità ecclesiali protestanti perché le sue interpretazioni e il suo modo  di fare erano troppo vicino alla confessione cattolico – romana e quindi in contrasto con quella cultura religiosa presbiterana che era, ed è, primaria in quel territorio. La religiosità di Vincent era sulle orme di Francesco di Assisi, come ebbe a scrivere chi lo conobbe in quegli anni e gli storici che hanno analizzato le epistole di quel periodo. La sua conseguente ricerca artistica non fu altro che il trovare l’eterno nelle creature, nella natura stessa, nelle persone umili. Ogni sua opera è un parallelo pittorico al Cantico dei Cantici di Francesco di Assisi. 

Alla fine del 1878, si trasferì nella regione belga del Borinage, a Pâturage: qui si prese cura dei malati e dei feriti dalle esplosioni nelle gallerie interne alle  miniere di carbone e predicò il Vangelo ai minatori. Nel gennaio del 1879, la Scuola di Evangelizzazione di Bruxelles lo autorizzò a predicare temporaneamente. Così si trasferì nel centro minerario di Wasmes,  Charbonnage de Marcasse, vivendo in una baracca. Era inorridito per le condizioni disperate dei minatori, donava tutto il suo stipendio da predicatore alle loro famiglie, regalava i suoi vestiti, si nutriva di avanzi.  Curava gli ustionati, strappando la propria biancheria per farne bende per lenire le piaghe con cera e olio d’oliva. Ma il suo riguardo, la sua compassione, il suo parlare di misericordia, il suo estremo impegno sociale non piacevano alla chiesa e gli stessi presbiteri, che avevano concesso l’autorizzazione, scrissero: “Ha svilito la dignità sacerdotale e ha offeso Dio”. Fu considerato una persona indegna,  sospettato di poter addirittura incitare alla ribellione sociale, così l’incarico alla predicazione gli venne sottratto. Fu quello il momento in cui ruppe con il mondo ecclesiastico, ma non perse mai la sua grandissima fede in Dio e la sua fiducia nella religione. Ebbe a scrivere al fratello Theo nella lettera 133 del luglio 1880 “Le cose non sono come appaiono, Dio ci insegna, attraversa le cose della vita quotidiana, cose più alte. Le cose non sono ciò che sembrano ma alludono a qualcosa di recondito, di profondo”.

Fu così che Vincent individuò nella pittura una via alternativa per dare un volto al suo misticismo e per trovare la propria dimensione in questo mondo. 

 Dalle fonti traspare la sua felicità nel disegnare e nel dipingere. In questo periodo Kee, sua cugina, insieme a suo figlio, lo accompagnavano in questa attività. Lei, figlia di un sacerdote,  era di qualche anno più piccola. È evidente che Kee aveva dimostrato affetto e simpatia nei confronti di  Vincent e lui se ne innamorò. Le famiglie, però, non solo non appoggiavano un loro ipotetico rapporto, ma erano apertamente contrarie, tanto più che  lei non dimostrò mai alcun interesse particolare nei confronti del pittore. Un giorno Van Gogh si presentò a casa di Kee ad Amsterdam.  Lei, non appena sentì che alla porta c’era lui, si nascose in un’altra stanza. Lo zio cercò di dissuadere Van Gogh e provò a convincerlo di lasciar perdere, ma lui, per tutta risposta, compì un gesto estremo, mettendo la mano sinistra sulla lampada a petrolio, dicendo che l’avrebbe  lasciata bruciare sul fuoco, fino a quando non fosse riuscito a vedere la ragazza. Quel gesto convinse la famiglia della cugina che Vincent fosse un esaltato, un folle senza controllo, così spensero quella lampada e lo obbligarono a tornare alla pensione dove alloggiava.

Kee era stata una forte infatuazione di Vincent, ma non la più coinvolgente. Spiega in una lettera a Theo: “Mi rimprovererai: come? Avevi detto lei e nessun’altra, e ora vorresti andare da un’altra donna? È irragionevole, contrario ad ogni logica. Ed ecco la mia risposta, caro Theo: chi è il padrone? La logica o io? Non c’è forse una certa dose di ragione e di coerenza nella mia illogicità? Comunque sia, giusto o sbagliato, quel dannato muro di chiesa è troppo freddo per me.”

Van Gogh si trasferì all’Aia sotto la tutela del pittore Anton Mauve che aveva sposato una sua cugina di primo grado. In questo periodo incontrò Clasina Maria Hoornik, più conosciuta col nome di Sien Hoornik; fu lei l’unica donna con la quale abbia avuto un rapporto stabile e duraturo. Vincent la rese eterna in un disegno che intitolò Sorrow, dolore. Sien era un’ex prostituta con una figlia e incinta di un altro figlio, aveva un viso da donnola  spaventata, dalle guance incavate e segnate dal vaiolo, fronte larga e segnata dal tempo,  naso lungo e stretto, nella bocca radi denti. Non era  certo l’immagine della beltà, ma Van Gogh aveva talmente bisogno di dare e ricevere amore e aveva talmente pietà per gli umili, che  trovò perfetta quella donna. Sembrerebbe che la loro relazione sia inizita prima come rapporto professionale, perché lei gli faceva da modella, poi, in un secondo momento, divennero amanti. Sien posò per lui durante tutto l’inverno. In cambio, il pittore fornì a lei e a sua figlia un posto dove vivere e mangiare. La dinna era già malata quando lo incontrò e Van Gogh, come si evince dalle fonti, fece tutto il possibile per riportarla in salute. Nel giugno del 1882, Vincent fu ricoverato per gonorrea, probabilmente contratta dalla donna, ma, disobbedendo alla prescrizione medica, il primo luglio scappò dall’ospedale diretto a Leida, per far visita a lei, che aveva appena dato alla luce un bimbo. Si trasferirono, in seguito, in uno studio più grande, voluto da Van Gogh perché più adatto e comodo per avere cura di lei e dei suoi due figli. Il bambino, tuttavia, sembrava portargli molta felicità . Nella lettera a Anthon Van Rappard del 4 Febbraio 1883, scrisse che mentre cercava di andare più a fondo come artista, stava anche cercando di farlo come  uomo. La sua relazione  con Sien, però, gli  causò la perdita del sostegno di familiari ed amici. Il rapporto con i genitori divenne teso. Suo cugino, Anton Mauve, che da un mese gli faceva da insegnante di pittura,  interruppe bruscamente i contatti dopo il primo incontro di Van Gogh con Sien. 

Nello stesso periodo anche un amico di famiglia di lunga data, Hermanus Tersteeg, un influente mercante d’arte che aveva insegnato a Vincent e a suo fratello Theo come comportarsi in questo mercato e che aveva fornito la letteratura necessaria e  dato a Vincent la prima scatola di materiali e utensili per dipingere quando decise di diventare un artista, sebbene fosse stato equivoco e discontinuo nel suo sostegno, appena seppe della convivenza dei due, si ritirò bruscamente. 

È necessario precisare che il rapporto di Van Gogh con Anton Mauve durava solo da poco più di un mese. Nella lettera 203, scritta a l’Aia, giovedì 26 gennaio 1882 riferiva a Theo che non sempre trovava facile andare d’accordo con Mauve. Poche settimane dopo, in effetti, discussero per un problema che riguardava il disegno dal vero di calchi in gesso. Mauve voleva che Van Gogh si fosse esercitato  al disegno delle riproduzioni in gesso per perfezionare il tratto e lo sfumato delle ombre. Van Gogh, tuttavia, insisteva con forza nel voler disegnare altri modelli e, in un attacco di rabbia, distrusse alcuni calchi di mani e piedi che Mauve gli aveva dato per studiare. 

In seguito a quell’incidente, Mauve dichiarò che non avrebbe avuto più nulla a che fare con lui per i prossimi due mesi (cioè per il resto dell’inverno), ma in realtà aveva già deciso di rompere completamente il rapporto col pittore.  Van Gogh inizialmente attribuì l’indifferenza di Mauve a Tersteeg , ma un incontro casuale con Mauve a maggio gli fece capire chiaramente che questi aveva chiuso ogni rapporto con lui per sua libera scelta. Descrisse quest’incontro in una lettera a Theo, in cui rivelò, per la prima volta, la sua relazione con Sien, difendendola appassionatamente. Theo, in un’epistola, supportava il fratello, ma era scettico su questo legame e sul proposito di Vincent di unirsi a Sien in matrimonio: ” Non è una donna che tu possa sposare, Vincent. Aiutala ma non la sposare”. La corrispondenza tra i fratelli Gogh si rese molto intensa in questo periodo, Theo gli fece capire che se avesse continuato in quella relazione non avrebbe più potuto inviargli denaro o materiale per dipingere.  Vincent,così, si trovò costretto a fare una scelta: vivere una vita con una famiglia, fare un lavoro qualsiasi, rinunciando a dipingere, oppure avere il supporto di Theo e continuare la sua ricerca artistica. È evidente che per lui non c’era altra scelta al di fuori della pittura e del disegno e del fare dell’arte la sua vita. Come un canto del cigno all’amore, Vincent abbandonò l’unica donna che abbia mai amato; nessuna dopo di lei sarebbe riuscita ad avere la sua anima. Vincent lasciò Sien nell’autunno del 1883 e andò a Drenthe a dipingere. Lei tornò a lavorare come sarta, poi trovò un impiego come donna delle pulizie e forse tornò a prostituirsi. I suoi figli, Maria e Willem, vivevano con la madre  e il fratello Pieter.  Nel 1901 sposò un marinaio, Anton van Wijk, tre anni dopo, all’età di 54 anni, si tolse la vita nel porto di Rotterdam, 14 anni dopo la morte di Van Gogh.

Dopo la fine di questa relazione amorosa, Vincent approfondì il disegno e conobbe il pittore olandese Anthon van Rappard. Nel suo atelier studiò la prospettiva e l’anatomia, realizzò molti disegni, ritraeva molto spesso le persone umili, i semplici, contadini e minatori. I suoi pittori di riferimento erano Courbet, Millet e Daumier. Nell’aprile 1881 lasciò l’atelier e tornò a casa, a Etten. Con il ritorno alla quiete familiare, il suo umore e la relazione con gli altri sembravano migliorati. Nel 1886 giunse a Parigi e andò ad abitare da Theo, che lo introdusse gradualmente nel giro di pittori impressionisti. “Ad Anversa non sapevo neppure che cosa fossero gli impressionisti, ora li ho visti e anche se non sono uno di loro, ho ammirato molto i loro quadri“. Theo lavorava alla Goupil e nella sua galleria Vincent ebbe la possibilità di studiare le opere di Corot, Daumier, Monet, Renoir, Sisley, Pisarro, Guillaumin e Degas. Tra i molti pittori conosciuti di persona e frequentati a Parigi si possono menzionare Renoir, Monet, Degas, i cui studi sul nudo esercitarono un enorme fascino, Camille Pissarro e suo figlio Lucien. Van Gogh mostrò a Camille il suo Mangiatori di patate e il pittore rimase colpito dall’immensa forza espressiva che si celava dietro queste opere. Vincent si iscrisse ai corsi di nudo tenuti da Cormon nel suo atelier, frequentato da molti giovani ribelli di talento, come Toulouse Lautrec, Louis Anquetin e l’inglese Hartrick, con i quali Vincent ebbe buoni rapporti. Probabilmente fu proprio l’inglese, il primo a parlare di Gauguin a Van Gogh. Nel 1888 lasciò Parigi per Arles, in Provenza. Qui nacque il progetto di realizzare L’atelier du midi, che si ricorda comunemente come la “Casa Gialla”. Van Gogh sognava di creare un atelier che fosse un laboratorio di ricerca di gruppo e un luogo dove gli artisti potessero aiutarsi a vicenda. Questo progetto però non riuscì mai a prender forma e quella casa ospitò soltanto un altro pittore, Paul Gauguin. 

I due erano figure irrequiete,  innovatori dell’arte figurativa. Avevano più di una cosa in comune, una personalità fortemente caratterizzata, nel bene e nel male, appassionata ed eccentrica, un’esistenza errabonda e inquieta. Gauguin realizzò un quadro che rappresentava Van Gogh che dipinge un quadro di girasoli e anche una caricatura dove dipinge direttamente il sole. Secondo Georges Bataille, Vincent stava psicologicamente a Gauguin come il girasole sta fisicamente al sole: in un rapporto di subordinazione e dipendenza. Van Gogh era l’Io, Gauguin l’ideale dell’Io. Ma la loro non fu una facile convivenza, spesso discutevano. Negli ultimi mesi, come scrive al fratello, c’erano state discussioni estremamente accese, che alla fine lo lasciavano esausto. Dai documenti che ci restano, la sera del 24 dicembre, dopo l’ennesimo diverbio, Vincent aggredì Gauguin con un rasoio, lui si difese e, nella colluttazione, lo disarmò, rimanendo, per quella notte, a dormire fuori casa.

Nel 2015 la storica dell’arte Bernadette Murphy trova, nell’archivio della corrispondenza di Irving Stone conservato in California, un documento che svela il mistero. È una lettera del dottor Rey, datata 18 agosto 1930, che illustra a Stone come sono andate le cose: “l’orecchio è stato tagliato con un rasoio seguendo la linea tratteggiata”.

La linea tratteggiata indica il distaccamento di tutto il padiglione auricolare, tranne il lobo.

Dopo il trattamento di medicazione, il medico dell’ospedale della città, Felix Rey, scrisse un rapporto sull’intervento compiuto, in base al quale Van Gogh si sarebbe amputato gran parte del padiglione auricolare. Dopo aver compiuto l’autoamputazione, il pittore offrì il suo orecchio tagliato a una donna che non esercitava la professione più antica del mondo, come spesso viene riportato, ma faceva la cameriera in un bordello.

 Gauguin lo trovò la mattina dopo nel letto insanguinato, fu portato immediatamente in ospedale. Paul tornò a Parigi abbandonando  Vincent  e la Casa Gialla per sempre. Si trattava di un semplice gesto autolesionista di un maniaco-depressivo, oppure era il primo sintomo dello stabilizzarsi di una malattia degenerativa che era in incubazione dentro di lui? Lui stesso si poneva interrogativi sulla propria sanità mentale, ma proprio questa capacità introspettiva lo distingueva dai malati di mente, perché era consapevole di quello che gli stava accadendo. Vincent trascorse gli ultimi mesi della sua vita ad Auvers, in campagna. Era stremato, in una profonda prostrazione psicofisica; la campagna e l’aria salubre del nord, più la presenza del dottor Gachet erano i motivi per i quali si era trasferito. Frequentò spesso la casa del dottore e lo ritrasse due volte. Gachet, laureato in medicina e studente di psicologia, gli aveva fantasiosamente diagnosticato una sindrome da “intossicazione da sole meridionale”. Van Gogh sperava di poter essere curato da lui, ma con il passare dei giorni, Gachet sembrava sempre più stravagante agli occhi di Vincent, che scrisse a Theo:”Credo che non si possa assolutamente far conto sul dottor Gachet.  Prima di tutto, da quanto mi è sembrato, è più malato di me“. Ora, “se un cieco conduce un altro cieco, non vanno a finire tutti e due in un fossato?”. Il pittore andò a trovare il fratello a Parigi e si accorse subito del clima cupo e pesante. Theo rischiava di perdere il posto di lavoro alla Goupil, il nipote Vincent era malato e le cure mediche sarebbero state lunghe e costose. Questa situazione lo fece crollare definitivamente, anche perché si sentiva  un peso sia affettivo che finanziario nei confronti del fratello. 

Era il 27 luglio 1890 quando Vincent, dopo essere uscito per dipingere come suo solito, rientrò nella locanda dove viveva. Non vedendolo arrivare per il pranzo, il proprietario andò a trovarlo in camera trovandolo sanguinante e disteso sul letto. Si era sparato ma non era morto sul colpo. Il dottor Gachet, non potendo rimuovere il proiettile, si limitò a fasciarlo, rassicurandolo che sarebbe guarito. Theo accorse il prima possibile, rimase vicino al fratello fino all’ultimo. Vincent fumava la pipa e parlava con Theo e, forse proprio sul punto di morte, era riuscito a trovare la sua dimensione. Nel 2011 è stata avanzata l’ipotesi che Van Gogh non si sia ucciso ma che due ragazzini, per  deriderlo, lo abbiano involontariamente ferito. Vincent consapevole delle conseguenze che i due avrebbero dovuto subire e, convinto di essere arrivato alla conclusione del suo cammino, non avrebbe confessato nulla, raccontando di aver tentato il suicidio. Ma Leo Jansen, curatore del Van Gogh Museum di Amsterdam ritiene questa ipotesi non sufficientemente provata e non in grado quindi di poter essere accettata dalla comunità accademica.

Nei pantaloni che Vincent indossava quel giorno fu trovata questa lettera che non fu mai spedita: 

Auvers-sur-Oise, 27 luglio 1890.

“Mio caro fratello, grazie della tua cara lettera e del biglietto di 50 fr. che conteneva. Vorrei scriverti di tante cose, ma ora non mi sembra utile. Spero che avrai trovato quei signori ben disposti nei tuoi riguardi. Che tu mi rassicuri sulla tranquillità della tua vita familiare ne vale la pena; credo di aver visto il lato buono come il suo rovescio e del resto sono d’accordo che tirar su un marmocchio in un appartamento al quarto piano è una grossa schiavitù sia per te che per Jo. Tutto si è risolto questo è ciò che conta per cui non voglio insistere su cose di minima importanza. Credimi, prima che ci sia la possibilità di chiacchierare di affari a mente più serena passerà molto tempo questa è solo un’unica cosa che in questo momento ti posso dire, e questo da parte mia l’ho constatato con un certo spavento e non l’ho ancora superato, e per ora non c’è altro che vorrei dirti. Gli altri pittori, checché ne pensino,si tengono istintivamente lontani dalle discussioni sul commercio attuale, perché è  poi vero, noi possiamo far parlare solo i nostri quadri. Però, mio caro fratello c’è uan cosa che ti ho sempre detto e che ti ripeto ancora una volta con tutta la serietà che può provenire da un pensiero costantemente teso a cercare di fare il meglio possibile, te lo ripeto ancora, io ti ho sempre considerato qualcosa di più di un semplice mercante di Corot, e che tu tramite me hai partecipato alla produzione stessa di alcuni quadri, che, pur nel fallimento totale, conservano la loro obiettività. È  questa la cosa principale che io possa dirti in questo momento di crisi relativa. In un momento in cui le cose fra i mercanti di quadri di artisti morti e di artisti vivi sono molto agitate. Ebbene, nel mio lavoro io rischio la vita e la mia ragione vi si è consumata per metà – e va bene – ma tu non sei fra i mercanti di uomini, per quanto ne sappia, e puoi prendere la tua decisione, mi sembra, comportandoti come tu solo sai fare, realmente con l’umanità che ti è propria.  Cosa vuoi di più?”.

Vincent Van Gogh viene spesso indicato come colui che dà inizio a quella categoria di artisti che si sentono esclusi da una società pragmatistica, in cui il lavoro viene considerato come mera attività finalizzata al profitto. Ma, in effetti, la sua ricerca non seguiva quella di Paul Gauguin, il quale andò, invece, alla ricerca di nuove realtà che potessero essere risposta e riparo a quella società che non riconosceva la sua pittura e il suo fare arte. Sebbene  un critico dell’epoca come Maus, nel 1889, scrivesse di lui queste parole: “Esprimo la mia sincera ammirazione per Paul Gauguin, uno dei coloristi più raffinati che io conosca e il pittore più alieno dai consueti trucchi che esista.”, il pittore, sposato e padre di cinque figli, continuò a rimanere deluso da quella società, trovando rimedio  in ripetuti viaggi in luoghi sperduti e lontani dall’Europa.

  Dopo i soggiorni a Panama e in Martinica, ritornò in Francia e trasformò  la sua pittura grazie all’uso di colori più puri e contrastanti, eliminando totalmente il colorismo e la tecnica impressionista. Fu in questo periodo che si trasferì ad Arles. Infatti, nel 1888, su consiglio di Theo, ma anche per un contratto stipulato con questi, raggiunse Vincent. Tuttavia, restò amareggiato da quel che trovò, tanto da scrivere:: “trovo tutto piccolo, meschino, sia i paesaggi sia le persone”. Rimase deluso anche dal carattere di Van Gogh, così diverso dal suo. Scrisse ancora Gauguin al suo amico Schuffenecker “Ad Arles mi sento un estraneo […] Vincent e io andiamo ben poco d’accordo, in genere, soprattutto quando si tratta di pittura. Lui ammira Daudet, Daubigny, Ziem e il grande Rousseau, tutta gente che io non posso soffrire. Invece disprezza Ingres, Raffaello, Degas, tutta gente che io ammiro: io gli rispondo “sissignore, avete ragione”, per avere pace. I miei quadri gli piacciono, ma quando li faccio trova sempre che ho torto qui, ho torto là. Lui è romantico, io invece sono portato verso uno stato primitivo. Dal punto di vista del colore, lui maneggia il colore come Monticelli, io detesto fare intrugli”

Le fonti annotano che i due ebbero quello scontro violento, di cui ho già parlato nelle pagine precedenti,  in un café,. Ma le note si fanno confuse e contraddittorie, le traduzioni poi, come già è detto, non aiutano. C’è chi scrisse che Van Gogh lo rincorse per strada con una pistola e che poi Paul nella colluttazione riuscì a disarmarlo; qualcun altro scrisse che in mano avesse invece un rasoio. Sta di fatto che tutti concordano nel riportare che una volta rincasato, Vincent si tagliò un orecchio. Gauguin, che era andato a dormire in albergo, la mattina dopo trovò i gendarmi che prima lo accusarono di aver tentato di uccidere l’amico, poi lo rilasciarono. 

 Gauguin tornò ad esporre ma con poco successo, vendeva poco, viaggiò prima in Bretagna, poi a Bruxelles, a Parigi e a Pont – Aven. Tuttavia, egli era consapevole di come la Francia e quel tipo di società borghese  fossero nemiche per la sua arte. Uno stile, il suo,  maturato alla fine degli anni ’80 grazie all’unione tra una cromaticità accesa e il Primitivismo, che aveva appreso fin da giovane viaggiando in Perù, ed arricchito dalla sua riflessione sulla pittura di Cézanne. . La sua insoddisfazione e la sua inquietudine potevano trovare risposta solo in un luogo lontano dall’Europa, in un mondo incontaminato e incontaminabile dove tutto fosse autenticamente primitivo. Scrisse al pittore simbolista Odilon Redon: “Ho deciso di andare a Tahiti per finire là la mia esistenza. Credo che la mia arte, che voi ammirate tanto, non sia che un germoglio,e spero di poterla coltivare laggiù per me stesso allo stato primitivo e selvaggio. Per far questo mi occorre la calma: che me ne importa della gloria di fronte agli altri! Per questo mondo Gauguin sarà finito, non si vedrà più niente di lui”. 

Vincent Van Gogh non fugge, se viaggia lo fa con lo spirito dell’eremita che cerca luoghi dove poter contemplare la presenza di Dio nel creato e nelle creature. Non cerca risposte nei viaggi per terre lontane e nemmeno nel Primitivismo, trova le risposte nel dipingere le sensazioni e le emozioni che si formano in lui quando osserva e vive il creato e le creature. Trova la risposta a quella società, dando forma e colore a quel tumulto che si genera in lui quando cerca di figurare immaginario e razionalità. E lo fa fondando una comunità di artisti come fosse un nuovo ordine di persone che esercitano una vocazione comune. Per Van Gogh lo scopo dell’arte non è quello dei movimenti francesi, arte come strumento, ma piuttosto arte come agente che trasforma la società, in quanto, l’unico mezzo che può dar visibilità all’invisibile presenza dell’Eterno. 

Nella lettera  a Theo n° 408. — Nuenen, del maggio 1885.  Scrisse : “In questi giorni, disegnando una mano e un braccio, ho messo in pratica il precetto di Delacroix: “Non partire dalle linee di contorno, ma dal centro”. Questi soggetti offrono buone occasioni di prendere come punti di partenza delle ellissi. Ciò che cerco d’imparare così non è il disegnare una mano, ma un gesto; non una testa matematicamente esatta, bensì il profondo della sua espressione. Per esempio, lo zappatore che annusa il vento quando alza un attimo il capo o parla. Insomma, la vita”. Per Van Gogh  l’arte è una forza attiva, evidente scoperta di quella Veritas contro la generale tendenza all’alienazione, alla mistificazione di quella società che assegnava al lavoro il solo scopo del profitto. Anche la tecnica della pittura, nelle sue opere, muta. I luminosi tocchi di colore di Renoir e di Monet, la pennellata lineare del primo e quella più densa del secondo, lasciano posto a un fare che è suscitato dalle forze interiori dell’essere, come se l’angoscia e il tendere dell’anima verso l’eterno di Kierkegard non possa essere esplorato se non con una passionalità che diventa gesto, pennellata volitiva, spatolata. I colori vengono dati quasi puri e, a volte, come indicano i referti degli ultimi restauri, impastati direttamente sull’opera. I volti e le cose si dipanano nel fondo del quadro quasi a dare definizione a un infinito cosmo che è specchio di quello interiore. Ma non c’è la volontà dei pittori romantici, la natura non è espressione della rivelazione, ma proiezione dove si rende visibile la passionalità interiore. La sua ricerca è dall’interno verso l’esterno, opposta , in questo caso, a quella degli impressionisti. Per Van Gogh, l’arte è vera celebrazione, rito in cui l’artista rende visibile, nella mensa ch’è la tela, la scintilla che Dio ha messo in lui. Ogni gesto che diventa colore e forma, è un gesto con cui il pittore affronta la realtà non per rappresentare il vero in maniera diversa ma, piuttosto, per cogliere un contenuto essenziale, l’idea stessa dello spirito nella vita dell’uomo. 

 Era un messaggio che si opponeva a quella società borghese in cui il lavoro, trasformato ormai in realtà alienante, aveva estinto la dignità dell’uomo come essere creato da Dio. Vincent non segue le sensazioni e l’attimo fermato dai colori che suscitano emozioni, come fecero gli impressionisti. Di Cézanne, che si dedica a indagare la struttura della sensazione, ammira l’impegno a far sì che essa stessa divenga coscienza che rivela l’esistenza.  Van Gogh non seguì neppure Seurat e Signac nel loro tentativo di fondare sull’autenticità della sensazione una nuova scienza della percezione. Non cerca nemmeno uno spiritualismo della visione. Propone, invece, una vera ricerca etica, quasi che il suo fare arte, altro non sia, che restituire al mondo reale l’irrealtà delle sensazioni che il creato suscita.  Ogni sua  opera è turbinio di forze che si contrastano e si armonizzano, mirabile è la capacità di creare assonanze con le tonalità dello spazio, come se il fondo e gli oggetti non siano altro che un cosmo dove le figure si manifestino. Nei suoi ritratti ed autoritratti, ad esempio, i colori sono reali, descrivono quel che si vede, ma poi gli oggetti e lo spazio intorno alla figura risentono delle vibrazioni cromatiche, come se tutto fosse in una perenne dinamicità.  È la ricerca di quel Cristianesimo di stampo protestante, in cui l’uomo riesce a guardare alla verità di sé stesso in tutta la sua complessità. Van Gogh mantiene la sua fede, nonostante fosse stato cacciato dalle autorità teologiche e sa bene  che, solo abbracciando il Cristianesimo, l’uomo riesce a superare l’angoscia, così come vine spiegato dal pensiero di Søren Kierkegaard“nessun evento contingente futuro, per quanto negativo, riuscirà a sottrarre all’uomo un bene eterno al quale è possibile accedere solo attraverso un atto di libera scelta, attraverso l’accettazione della libertà umana che nessun evento contingente futuro può mettere in discussione”. Il fare arte  è, per Van Gogh, un modo per vivere quella predicazione di Cristo che gli era stata preclusa. Scrisse al pittore e amico Émile Bernard (1868-1941): Cristo solo […] ha affermato come certezza prima la vita eterna, l’infinito del tempo, il nulla della morte, la necessità e la ragion d’essere della serenità e della dedizione. Ha vissuto serenamente, da artista più grande di tutti gli artisti, disdegnando marmo e argilla e colore, lavorando con la carne viva”. Sulla missione di Gesù aggiunge inoltre Queste parole parlate [quelle di Cristo che annuncia il Regno dei cieli], che da gran signor prodigo non si degnava neppure di scrivere, sono una delle vette più alte – la più alta – raggiunte dall’arte che vi diventa forza creatrice, potenza creatrice pura”. Van Gogh, per fede, ha capito che il Cristianesimo permette all’esistenza dell’uomo, il passaggio dal finito all’Infinito, permettendo alla sua dimensione corporea e finita, di divenire luogo dove l’Infinito si attua e verifica. È Kierkegaard che spiega come è possibile credere, ossia come è possibile considerare Cristo come la strada per la felicità. Se la fede è un salto oltre la razionalità pura e semplice, un paradosso, essa non potrà essere conservata solo attraverso argomentazione e convinzioni di natura intellettuale. La fede è contro ogni intellettualismo e richiede una volontà attiva e impegnata a tener vivo il sapere, attraverso il rischio che proviene dell’esercitare scelte concrete, capaci di rendere concreti una dottrina, un vivere, un fare arte che, altrimenti, per Van Gogh sarebbero svuotati di ogni autenticità. Nel disegno che raffigura un paesaggio realizzato sul fondo di un coperchio di scatola della galleria Audin, di rue misericorde Aix en provence, i segni che descrivono il cielo e le nuvole, i tratti che, più in basso, invece, delineano l’orizzonte, quelli che definiscono colline, case, pagliai e cipressi non sono altro che il tentativo di inventare un cosmo in cui le figure umane si fondono e si rivelano. Mirabile è il tratto della grafite che con gesti quasi ritmati ha descritto l’andatura lenta del contadino col mulo e quello della donna che rastrella davanti alla cascina. Tutto è un  tumulto, come in ogni sua opera, come negli autoritratti, il soggetto sembra  poter essere rappresentato solo con un tratto, un colpo di pennello deciso, volitivo e dinamico. 

Le fonti raccontano che quando dipingeva sembrava danzasse, muoveva ritmicamente le braccia, anche se stava seduto. Si muoveva, dicono, come fosse un maestro davanti all’orchestra. Il suo soma, il corpo, era solo un involucro che conteneva un organismo che sapeva di cielo e di fulgore, ecco perché distese la mano sulla lampada a olio per dimostrare ciò che provava dentro, ecco perché il taglio dell’orecchio gli fu logico nella sua irrazionalità. Il corpo, la gestualità, le sensazioni, i sentimenti non sono altro che un ponte verso quell’interiorità che l’artista sente più degli altri. L’opera d’arte ne è il supporto, lo spazio dove l’interiore dà visibilità a ciò che l’anima, prima che l’occhio, vede.   La sua vocazione non era la pittura, non scelse l’arte come vocazione, ma la  praticò come una vero predicatore che esercita il  ministero di dare visibilità all’Eterno invisibile.  

Quando egli era in vita, la stampa  non scrisse di lui  mai nulla come artista. Un giornale di Arles, Le Forum Républicain, la mattina del 30 dicembre 1888, pubblicava, tra il serio e il faceto, questo trafiletto  nella cronaca locale: “Domenica scorsa, alle 11 e mezzo della sera, il nominato Vincent Van Gogh, pittore, originario dell’Olanda, si è presentato alla casa di tolleranza n. 1, ha domandato di tale Rachele e le ha consegnato il suo orecchio dicendole: “Conservatelo preziosamente.” Poi è sparito. Informata di questo fatto che non poteva essere che di un povero alienato, la polizia si è recata l’indomani mattina a casa di questo individuo, che è stato trovato nel suo letto, quasi privo di vita. L’infelice è stato accolto d’urgenza all’ospedale.”

Il medico che l’ebbe in cura, il dottor Rey, lo dimise dopo tre giorni di degenza, e descrive in un certificato, esposto nelle pagine precedenti, il taglio che distaccò il padiglione lasciando solo il lobo. Vincent per ringraziarlo gli fece un ritratto che il dottore finse di gradire, anche se lo rifilò alla madre, la quale lo gradì ancor meno, tant’è che lo utilizzò come chiusura per il buco del recinto che conteneva le galline.  È in questo periodo, mentre girava per le strade di Arles col volto fasciato, che realizzò il celebre ritratto con le bende bianche e la pipa in bocca. Era depresso, solo e deluso, il suo amico Gauguin era scappato via e gli abitanti di Arles dimostravano di non gradire la presenza di quell’artista mezzo pazzo, temeveno le sue intemperanze e il carattere a volte furioso, organizzarono una petizione e raccolsero firme per farlo allontanare. In realtà, le firme raccolte furono poche e non ci fu nessun allontanamento forzoso.

Van Gogh accettò il consiglio del fratello e del dott. Rey  di ricoverarsi nell’ospedale di Saint-Rémy, poco distante da Arles. Scrive: “Provvisoriamente desidero restare  internato, tanto per la mia tranquillità che per quella degli altri. Ciò che mi consola un po’ è che comincio a considerare la pazzia una malattia come un’altra e accetto la cosa come tale, come durante le crisi in cui le cose che immaginavo mi sembravano la realtà…” la diagnosi recita “mania acuta con allucinazioni uditive e visive”. 

 Trasformò una cella vicino alla camera in una sorta di  studio e, nonostante avesse ancora degli attacchi episodici, nell’anno in cui era ricoverato, produce centocinquanta  dipinti. Rappresentava ciò che vedeva dalla finestra della sua stanza, i fiori e gli alberi che si trovavano nel giardino recintato del manicomio. In seguito gli fu permesso di avventurarsi più in là, all’aperto, dove dipinse campi di grano, ulivi e cipressi: “sono più felice qui per il mio lavoro di quanto lo sarei fuori: ho imparato abitudini regolari che mi stanno dando un nuovo ordine nella mia vita”. Scriveva che a volte si sentiva stanco e senza la forza per eseguire lavori originali. Fu questo forse il motivo che lo portò a realizzare copie dei suoi artisti preferiti: Millet, Rembrandt, Delacroix. Trasformò le stampe in bianco e nero delle opere di questi pittori  in dipinti a colori, nel suo stile: così rivisitò la Pietà di Delacroix, ad esempio, dando al Cristo una rassomiglianza con se stesso, come aveva fatto nello stesso anno Gauguin nell’opera Cristo giallo. Tuttavia, nonostante questa inesauribile forza creativa, si verificò l’ennesimo gesto autolesionista: ingoiò i colori nel tentativo di avvelenarsi. Lo salvarono, ma gli tolsero i colori, costringendolo a usare solo la matita.

La Maison de Santè di Saint-Rémy non era confortevole come l’ospedale di Arles, tuttavia lì vi rimase un anno, dal maggio 1889 al 17 maggio 1890. In quei dodici mesi tra  Arles e Saint-Rèmy, Van Gogh spedì i dipinti a Theo a Parigi, diede vita a capolavori assoluti come gli Iris, i Cipressi, la Notte Stellata. Theo esaltò le sue creazioni per la forza dei colori, il simbolismo, l’esaltazione delle forme, la meditazione sulla natura e le forme di vita. Anche altri artisti, compreso Gauguin, ne scrissero note entusiaste. 

Il critico Alber Aurier pubblicò una recensione favorevole, scrivendo che il lavoro di Van Gogh era collegabile a quello dei Simbolisti. Il pittore rispose al critico ringraziandolo, ma in sostanza dimostrò, con motivazioni storico – artistiche, argomentate e precise, le differenze tra i simbolisti di inizio secolo e lui e Gauguin. In questo periodo nacque il figlio di Theo e Johanna Gezina van Gogh Bonger, al quale verrà dato il nome di Vincent Willem. 

Le opere che produsse in quest’anno dimostrano il superamento delle imposizioni impressioniste e la ricerca di uno stile, in effetti,  simbolico che gli permetteva di rielaborare la realtà in quadri che concedevano ampio spazio alla sua immaginazione.

Nella lettera n° 593 a Theo del due giugno 1889 scrisse: […] Questa mattina dalla mia finestra ho guardato a lungo la 

 campagna prima del sorgere del Sole, e non c’era che la stella del mattino, che sembrava molto grande. Daubigny e Rousseau hanno già dipinto questo, esprimendo tutta l’intimità, tutta la pace e la maestà e in più aggiungendovi un sentimento così accorato, così personale. Non mi dispiacciono queste emozioni. […] Credo che faresti bene a lavare quelle tele che sono ben asciutte con acqua e un po’ di alcool etilico per togliere il grasso e l’essenza della pasta. Così anche per il Caffè di notte, il Vigneto verde, e soprattutto per il paesaggio che era nella cornice in noce, Anche per la Notte (ma lì ci sono ritocchi recenti, che con l’alcool etilico potrebbero spandere). […] Per quanto riguarda la mostra degli indipendenti, mi è assolutamente indifferente, fa’ come se non ci fossi. Per non rimanere assente e per non esporre qualcosa di troppo pazzo, forse potresti mandare Notte stellata e il paesaggio verde-giallo, che era nella cornice di noce. Poiché sono due quadri di colori contrastanti, forse riusciranno a dare agli altri lo spunto per ottenere effetti notturni migliori. […]” . Da questa lettera si deduce che il celebre dipinto La notte stellata sia stato realizzato poco prima dell’alba del 19 giugno 1889, e cioè affacciato dalla finestra della camera – studio della clinica psichiatrica di Saint-Rémy-de-Provence. Ma anche su questa cronologia, non mancano le controversie. Van Gogh, in una lettera risalente al 31 maggio (lettera n. 593), fa esplicito riferimento all’opera e ciò che afferma in  due lettere successive (lettere n. 594 e n. 595 rispettivamente del 9 giugno e del 19 giugno 1889) fa supporre che l’opera sia stata eseguita circa un mese prima del 19 giugno 1889:

“Ho in corso due paesaggi visti verso le colline; uno è la campagna che intravedo dalla finestra della mia camera. In primo piano c’è un campo di grano sconvolto e piegato da un temporale. Un muro di cinta, e al di là una vegetazione grigia di qualche olivo, delle capanne e le colline. Infine, sull’alto della tela, una grande nube bianca e grigia che nuota nell’azzurro. E’ un paesaggio di una semplicità estrema, anche di colorazione…”. Nascono infatti in questo periodo i famosi Cipressi, i Campi di grano fulminati dal sole, i contorti Oliveti, cioè alcuni tra i capolavori della pittura dell’Ottocento.

 Il 16 Maggio del 1890 fu dimesso da Saint Rémy e il giorno dopo si recò a Parigi. La città gli parve così vorticosa  quasi da spaventarlo, si sentiva estraneo e solo.  Trovò Theo e Johanna col bimbo piccolo in una casa all’ultimo piano di un palazzo. L’appartamento era troppo angusto e Vincent avvertì le difficoltà del fratello, intuendo che la sua presenza lì a Parigi o in Provenza poteva essere un ulteriore problema per Theo. Si sentiva un intruso, così partì per Auvers sur Oise. In questo luogo andò in cura dal dottor Paul Gachet, piccolo collezionista e amico degli artisti, il quale, su invito di Theo, fu disposto a tenerlo in terapia. Nel ritrarre GachetVincent dipinse una pianta, la Digitalis purpurea, in un bicchiere. Questa pianta fu usata per la terapia fitoterapica con cui  si tentò di sanare le sue presunte crisi epilettiche. I principi attivi della Digitale potrebbero aver avuto una influenza decisiva nella visione cromatica del pittore nel periodo in cui  soggiornò a Auverws. L’accumulo di digossina e di digitossina, infatti, provocano un disturbo visivo, la Xantopsia, che consiste nella visione gialla di oggetti bianchi e nella visione tendente al viola degli oggetti scuri. Secondo molti esperti psicologi tedeschi, Van Gogh era affetto da Psicosi e quindi, presentava i sintomi a questa correlati, come la paranoia, il disturbo bipolare e la schizofrenia. Anche Theo e una delle tre sorelle di Vincent, si legge nelle note, moriranno segnati dalla schizofrenia. Secondo esperti francesi, invece, Van Gogh e alcuni familiari erano affetti da una leggera epilessia. In altri studi si legge, invece, che la propensione per il colore giallo sia stata provocata dall’assunzione dell’assenzio, una bevanda alcolica, ora quasi in disuso, ottenuta dall’Artemisia absenthium. Un suo eccesso,  e a questo proposito le fonti narrano di un uso abitudinario da parte di Vincent, può determinare alterazioni cromatiche della vista. Tutto ciò spiega, ma non esaurisce, lo studio e la conoscenza del genio dell’artista. Scrive Aldo Carotenuto, ” partiamo dall’assunto che quell’opera per essere creata aveva bisogno esattamente di quella vita. Niente di più”. La patologia non spiega l’arte, la psicologia non spiega il genio dell’artista. L’opera d’arte non è che l’espressione di ciò che danza nell’interiore, nello spirito, nell’anima, nella psiche. È giugno, in lui rinasce la speranza e la gioia di dipingere come un tempo, nelle lettere parla di quadri dipinti o da iniziare o da dipingere, chiede che gli fossero inviate tele e colori. Scrive a Theo il 17 giugno: “Ho un furore profondo di lavoro come mai; e questo aiuterà a guarirmi.” Scrive ancora l’intenzione di voler dipingere “una casa bianca nella vegetazione, con una stella nel cielo notturno e una luce arancione alla finestra; la vegetazione sarà nera con una nota rossa cupa”. Scrive anche a Paul Gauguin, con cui ha fatto pace e che non ha più rivisto, né  rivedrà mai più. I suoi quadri descrivono campi di grano, alberi dalle radici nervose, distese di campi ingialliti con le spighe mature. Nel cielo volteggiano stormi di corvi neri, già… come simbolo di un triste presagio. Il sette agosto del 1890 un giornale locale, l’Echo Pontoisien riporta un fatto accaduto ad Auvers “Domenica 27 luglio, un tale di nome Van Gogh, di 37 anni, olandese, pittore, di passaggio a Auvers, si è sparato un colpo di revolver nei campi e,  essendosi solo ferito, è rientrato nella sua stanza dove è morto due giorni dopo”. Una misera e anonima notizia di cronaca, un trafiletto  poco rilevante descrisse la morte di Vincent Van Gogh. In una tasca fu trovata un’ultima lettera di cui ho parlato nelle pagine precedenti. Théo morì sei mesi dopo. Fino ad allora, nessuno a Parigi aveva  voluto comperare un solo quadro dei molti che Vincent aveva dipinto. 

Sulla sua morte si è scritto molto, nessuno cita la parte dell’addome dove si conficcò la pallottola, non era una parte letale perché non morì sul colpo, si sarebbe potuto operare per estrarre l’ogiva che gli creava una emorragia. Fu rassicurato, fumò la pipa e parlò col fratello. L’arma non fu mai trovata, c’è chi asserisce che l’avesse chiesta in prestito a un contadino, per scacciare i corvi che infestavano i campi. 

 Le sue ultime crisi, quelle più severe, coincisero con forti abbandoni e con lo spettro di una solitudine come sintomo della consapevolezza di esser rifiutato, rifiutato ancora.   Lo si evince dalla corrispondenza e poi dalla lite con Gauguin, in cui l’automutilazione  avvenne dopo che Theo gli aveva scritto che stava per unirsi in matrimonio con Jo. Un’altra crisi si verificò quando ebbe la notizia che Theo e Jo aspettavano un bimbo, e,  ancora, l’ultima più forte, si verificò il giorno in cui il piccolo vide la luce.

 Infine il giorno in cui, a soli trentasette anni, esplose quel colpo di pistola quando, le note dicono,  ricevette la notizia che Theo non avrebbe mantenuto la promessa di andare a fargli visita, perché impegnato in una gita più amena con la moglie e il piccolo appena nato. Era questa la notizia che dava all’uomo la consapevolezza di essere abbandonato definitivamente? È strano però, perché a Parigi aveva visto l’esiguo spazio in cui doveva vivere il fratello, la moglie e il piccolo nipote, al quale venne  dato il nome dello zio, Vincent WillemPer il bimbo realizzò il Ramo di mandorlo in fiore mentre tutto sembrava rasserenarsi. Dipinse, su uno sfondo di un celeste luminoso e sereno, il cielo su cui si propagano rami di mandorlo in fiore. I boccioli danno ancora più luce e donano all’insieme un’intensa sensazione di felicità. Certo passeranno dei mesi, il bimbo è nato in gennaio, ma non sembrava che potesse essere un ostacolo  tra lui e Theo.  Nel  Ramo di mandorlo in fiore (1890) tutto si distende, si rasserena, ma la vibrazione dell’anima si avverte chiara nei nodi di congiuntura dei rami, nei boccioli aperti, nel cielo che si dipana tra tocchi celesti e turchese. È un attimo di vera felicità in cui il Maestro dimostra di aver assimilato la lezione delle stampe giapponesi, un particolare, questo, che si nota anche nel celebre dipinto degli Iris. Scriveva pensando al nipote: “Ho iniziato subito una tela per il figlio di Theo, da appendere nella loro camera da letto, una tela azzurro cielo, sulla quale stagliano grandi fiori di mandorlo bianchi. Il ramo di mandorlo è, forse, il dipinto migliore che ho fatto, quello a cui ho lavorato con più pazienza e con più calma.”. 

Ma poi, sei mesi più tardi, nessuno ricordava dove Vincent Van Gogh avesse trovato la pistola quella sera del 27 luglio 1890. Rientrò sofferente nella locanda, si diresse subito nella sua camera. Il locandiere Ravoux, non vedendolo a pranzo, salì da lui, trovandolo disteso e sanguinante sul letto. Van Gogh gli disse di  essersi sparato un colpo di rivoltella allo stomaco in un campo vicino,  così raccontò Ravoux . Allo stomaco: strano bersaglio per chi ha intenzione di suicidarsi. Il dottor Gachet fasciò il torace di Vincent senza cercare di estrarre l’ogiva, senza tentare di portarlo là dove potessero fare qualcosa di più. Al medico di cui aveva fatto il ritratto e del quale aveva ammirato la bella figlia, disse che aveva tentato, con coscienza, il suicidio e che, se fosse sopravvissuto, avrebbe dovuto “riprovarci”. “Volevo uccidermi, ma ho fatto cilecca”, Gachet dichiarò  di aver ascoltato queste parole da Vincent, che, disteso sul letto, rifiutò di dare spiegazioni ai gendarmi. Fumava la pipa e chiacchierava sul letto con Théo, trascorse così tutto il 28 luglio. Gli confidò. “la mia tristezza non avrà mai fine”. Theo raccontò che le sue ultime parole furono: “ora vorrei ritornare”.  Poco dopo ebbe una forte crisi respiratoria, sembrò soffocare, perse conoscenza, morì all’1:30 del 29 luglio. Nessuno ebbe dubbi, Vincent era morto suicida. Non ebbe dubbi nemmeno il parroco di Auvers che si rifiutò di benedire la salma. Il carro funebre fu messo a disposizione dalla vicina cittadina di Méry, le autorità acconsentirono alla sepoltura e il funerale si tenne il 30 luglio. Van Gogh venne adagiato in una bara di legno chiaro, la quale, una volta chiusa, fu ricoperta da mazzi di fiori, pare fossero girasoli e dalie. Oltre a Théo e al dottor Gachet, da Parigi giunsero Lucien Pissarro, figlio di CamilleÉmile Bernard, e Père Tanguy.  Ci fu silenzio anche tra gli abitanti di Auvers che non fecero trapelare nulla su quei due  ragazzi che bevevano fino a tarda sera con quel pittore mezzo pazzo. Tacquero tutti, benché sapessero che per gioco uno dei due aveva ferito quel pittore, con quella pistola che uno di loro esibiva come fosse Buffalo Bill. 

 Non disse nulla nemmeno Vincent, forse perché gli fu chiesto, e fu pregato di non dire, forse perché era stanco di vivere da reietto, forse perché finalmente si sentiva parte di una comunità che poteva difendere e di cui finalmente sentirsi parte, attraverso quel patto implicito, da mantenere tacendo. A sei mesi di distanza dalla morte di Vincent, morì anche Theo. Venne prima ricoverato in una clinica parigina per malattie mentali, sembrò guarire e si trasferì a Utrecht, dove finì i suoi giorni il 25 gennaio 1891. Nel 1914, Johanna Van Gogh Bonger, fece traslare e sistemare il corpo di Theo ad Auvers,  accanto a quello dell’amato fratello. Jo chiese inoltre che un ramoscello di edera del giardino del Dottor Gachet fosse piantato tra le due pietre tombali. Quell’edera, ancora oggi, decora le lapidi di Vincent e Theo. Johanna Bonger nacque a Amsterdam il  4 ottobre 1862,  il 15 novembre 1891,  alla morte del marito Theo scrisse sul suo diario:“Oltre alla cura del bambino, Theo mi ha lasciato un altro compito, l’opera di Vincent: devo farla apprezzare il più possibile, devo preservare inviolati per il bambino i tesori che Theo e Vincent hanno raccolto. Non mi manca uno scopo nella vita, ma ora mi sento sola e abbandonata”. Solo due anni prima aveva sposato Theo, il bimbo Vincent Willem non aveva che un anno. Nonostante le richieste dei genitori che avrebbero voluto offrire cure e riparo alla figlia ed al nipote, nel 1891 Jo si stabilì  a Bussen, fuori Amsterdam e visse traducendo racconti brevi dal francese e dall’inglese. Se ora possiamo attingere al prezioso carteggio fra Theo e vincent e all’opera di Vincent Van Gogh è grazie a lei.

 Jo incontrò  Vincent il 16 Maggio del 1890,  Theo  lo aveva invitato nella loro casa alla Cité Pigalle 8, pochi mesi prima del tragico epilogo. Nella prefazione  alla prima edizione olandese delle lettere a Theo del 1914 scrive: “Dopo la morte del fratello, Theo discusse con me il progetto di pubblicare le sue lettere, ma purtroppo lui venne a mancare prima che potessimo farlo”. Jo aveva incontrato Theo a Parigi, era amico del fratello. Aveva studiato inglese e superato tutti gli esami nei corsi di filologia e letteratura:, aveva lavorato per alcuni mesi a Londra alla biblioteca del British Museum. A ventidue anni divenne insegnante d’inglese in un collegio femminile a Elburg; insegnò più tardi alla Scuola superiore femminile di Utrecht.

Rimasta vedova, trasferì i moltissimi quadri di Vincent, che Theo aveva conservato in galleria a Parigi, nella sua nuova casa. Molti si dimostrarono disponibili a comprare le opere ma Jo si rifiutò per molto tempo di venderle.

Le note informano che le tele e i disegni, circa duecento,  vennero accatastati in una stanza che serviva da dispensa e magazzino. Tutti, eccetto La Mietitura che appese sopra la credenza, in sala da pranzo. Racconta che quell’opera le provocava ogni volta una nuova emozione perché evocava l’energia di Vincent e le parole che lui aveva scritto  al fratello: “Che cosa strana è il tocco, il colpo di pennello. All’aria aperta, esposti al vento e al sole, alla curiosità della gente, si lavora come si può, si riempie il quadro alla disperata. Ed è proprio facendo così che si coglie il vero e l’essenziale”. Jo aveva piena consapevolezza che quel carteggio fosse importante perché fonte indispensabile per conoscere Vincent Van Gogh, come  genio artistisco e come uomo.

Nell’estate del 1905 prese in affitto alcune gallerie dello Stedelijk Museum ad Amsterdam per una grande esposizione delle opere di Vincent.
Fu così che ebbe inizio il riconoscimento del pittore da parte del pubblico e fu così che si cominciò a conoscere l’amore che univa i due fratelli e il valore di quelle epistole, che rivelavano la vera essenza dell’uomo e dell’artista.

Nel 1915 Jo è a New York per prendere accordi sulla traduzione delle lettere in inglese. Nella prefazione scrisse così: “Quasi ventiquattro anni sono passati dalla morte di Theo prima che fossi in grado di completare la loro pubblicazione. Mi è occorso molto tempo per decifrarle e per ordinarle cronologicamente, prive com’erano quasi tutte di data. Ma anche un’altra ragione mi ha trattenuto dal darle prima alle stampe: sarebbe, infatti, stato ingiusto nei confronti di Vincent creare un interesse attorno alla sua personalità prima che l’opera a cui aveva dedicato tutta la vita avesse ottenuto quel riconoscimento che meritava. Molti anni sono occorsi affinché Vincent venisse salutato come un grande pittore. Ora è giunto il momento di far conoscere e comprendere anche la sua personalità”.

Le edizioni “Quai Voltaire” hanno pubblicato nel 2012 “Chi ha ucciso Vincent van Gogh?” Di Pierre Cabanne noto critico e storico dell’arte, autore di numerosi saggi, in particolare sugli impressionisti, ma anche su Picasso e Marcel Duchamp. Nel suo testo egli spiega che il 27 luglio 1890, in un campo nei pressi di Auvers, Van Gogh si spara un colpo di pistola. Si spara sì, senza ledere però alcun organo vitale, tant’ è vero che, da solo e senza aiuto, s’incammina fino alla camera dove alloggia. È difficile credere, scrive Cabanne, che Vincent volesse uccidersi: si sarebbe più verosimilmente sparato alla testa o al cuore. Voleva forse mutilarsi, come già aveva fatto due anni prima, tagliandosi il lobo di un orecchio, che offrirà incartato a una donna, forse contesa da Gauguin, che lavorava in un bar di un bordello. Fu considerato il gesto di un pazzo che era stato da poco dimesso dall’ ospedale psichiatrico di Saint Rémy, ma sembra, invece, più un gesto per richiamare l’attenzione dell’ amatissimo fratello Théo, per il quale sente d’essere diventato un peso. Il dottor Mazeray, chiamato al capezzale del ferito, quella fatidica sera del 27 luglio, chiama per un consulto il dottor Gachet, ma il suo atteggiamento è distaccato, quasi superficiale, forse perché sospetta che Vincent abbia corteggiato la figlia Marguerite, mentre la ritraeva in due dipinti divenuti celebri. Il dottor Gachet non è in grado di estrarre l’ogiva della pallottola dal corpo di Vincent, non lo fa portare all’ospedale per essere operato, lo lascia lì sapendo, da medico, che saprebbe morto dissanguato. Secondo Pierre Cabanne, il dottor Gachet malato di depressione, autore di “Uno studio della malinconia”  sarebbe il vero responsabile della morte dell’ artista: un’ accusa già lanciata a suo tempo dal poeta Antonin Artaud. E Théo Van Gogh, per essersi arreso passivamente ai suoi argomenti, sarebbe il suo complice indiretto. 

L’autore scrive che non può fornire prove materiali a conferma della sua tesi, ma sono forti le testimonianze contraddittorie, le relazioni tradotte in maniera impropria, gli scritti che hanno romanzato e distorto la realtà del dramma di Auvers. 

Davvero non è stato semplice, né poteva esserlo, scrivere  di te,Vincent Van Gogh. Non è stato semplice arricchire, con nuove e attendibili informazioni, una quanto più fedele possibile  conoscenza del tuo genio multiforme e misterioso, del quale si è detto tanto, a volte anche troppo, svuotando calamai d’inchiostro per stilare concetti, talvolta, del tutto opposti all’oggettività della storia, dei documenti e delle memorie scritte da chi ti ha conosciuto e da chi è vissuto con te. Per molti è stato facile, naturale sentirti vicino e amico, è sembrato che tutti ti conoscessero. È stato facile diagnosticare le tue patologie, persino la tua vocazione è passata tra le mani di illustri psicologi che hanno sezionato il tuo studiare i testi sacri, il tuo sentirti parte dell’eterno Creatore, d’altra parte i teologi  di te si accorsero tardi. È stato persino possibile sentire i tuoi pensieri affini ai nostri, dimenticando che furono estranei a tutti e a tutto, persino a noi stessi. Ma allora, al tuo tempo, eri un diverso, eri un pazzo, uno di cui aver paura o da sbeffeggiare. Ho letto che t’isolavano e non riuscivi ad avere amicizie, tanto meno confidenza con i compagni di scuola. Eppure è evidente il tuo misticismo e il cercare l’Eterno nella natura che tanto amavi, quella natura in cui tu t’immergevi e in cui tu vedevi espressa, specchiata la tua anima. 

Ora cosa vuoi, caro Maestro, siamo fatti così… ci accorgiamo della Bellezza quando l’abbiamo oltraggiata, sporcata e vilipesa. 

Abbiamo fatto mercato persino dei sentimenti, della natura abbiamo fatto  un immondezzaio di plastica e di cose superflue, del tuo essenziale ci schifiamo.

Per cui tu che sei tra i giusti e che hai solo cercato la Bellezza che mai muore, guardaci e sorridici, e,  di’ a quell’Eterno in cui tanto credevi,  di usar misericordia e di riempire i nostri cuori col canto immortale dei tuoi colori. 

                                                                                     Alberto D’Atanasio